Morto d'amianto a 55 anni ma ha sempre fatto il ragioniere
Storia di Achille Ciaprini. I familiari: «Colpa di un lavoro di tre mesi da ragazzo». Cercano testimoni per la causa contro la ditta
di Andrea Alberizia
Achille è morto a gennaio che aveva 55 anni, consumato da un mesotelioma pleurico, il tumore di chi è stato esposto all’amianto. Ma tutta la vita lavorativa di Achille è stata in ufficio a fare il ragioniere. Tranne quell’estate del 1974. Il 17enne Achille Ciaprini, romano trapiantato a Ravenna e studente di ragioneria, si trovò un lavoretto durante le vacanze e, secondo il suo racconto, per tre mesi maneggiò amianto in polvere nella stiva di una nave. Trentanove anni dopo quell’amianto si è divorato la vita di Achille. Non aveva dubbi Ciaprini che l’origine del suo tumore fosse in quell’estate, in quel lavoro. E all’inizio del 2012, quattro anni dopo l’affiorare della malattia (in linea con i lunghissimi tempi di latenza del mesotelioma, compresi tra venti e quarant’anni), dopo un intervento chirurgico per l’asportazione di un polmone, ha avviato una causa contro la ditta per cui lavorò chiedendo un risarcimento danni.
Era giovane nel 1974. Voleva mettere insieme due soldi ché facevano comodo. In un cantiere a Porto Corsini lavorò alla coibentazione delle pareti interne di quella che sarebbe diventata una falegnameria galleggiante. Il contesto più adatto per l’amianto, a quel tempo usato massicciamente per le sue proprietà ignifughe. Le normative che segnalavano la pericolosità del minerale erano cosa già nota, anche se poco pubblicizzata, ma la legge del 1992 che vieterà l’uso dell’amianto è ancora lontana da venire. E allora dagli con l’amianto. Tre mesi di esposizione continuata a quelle fibre bastarde senza essere stato informato di quanto fossero pericolose, senza aver avuto la dovuta dotazione di sicurezza. Questo sosteneva Achille.
A inizio del 2012 Ciaprini ha chiamato in causa la Isolfin Romagnola , la ditta per cui lavorò quell’estate, per un risarcimento danni da quasi due milioni di euro. Ma non ha fatto in tempo a entrare in un aula di tribunale per raccontare la sua storia a un giudice: l’udienza era fissata per il 26 febbraio scorso ma Achille è morto prima.
A portare avanti la causa sono rimasti gli eredi, la moglie Paola e le due figlie, Federica e Francesca, 22 e 27 anni. Vogliono la loro giustizia. Per un marito e un padre. Perché nessuna causa vinta riporterà indietro Achille, lo sanno bene, ma non ci stanno ad accettare che si sia ammalato per tre mesi di lavoro e nessuno ne risponda. La prossima udienza del processo di fronte al giudice del lavoro Roberto Riverso sarà a luglio. La famiglia di Achille, assistita dagli avvocati Flavia Bagnara e Cecilia Semprini, è alla ricerca di testimoni che possano confermare la versione del padre. Prima di morire Achille non è riuscito a ricordare il nome di nessuno dei tre o quattro giovani che lavoravano con lui in quel barcone: vattelappesca chi erano quei ragazzi di quarant’anni prima.
Ma cosa facevano nella stiva della nave in lavorazione? La sua versione Ciaprini la mise nero su bianco nell’istanza di risarcimento: per otto ore al giorno, per cinque giorni a settimana, stava là sotto prendendo l’amianto dai sacchi dove era conservato come lana secca, lo triturava in polvere fine con un macchinario apposito e lo impastava con acqua. A quel punto era pronto per gli operai che lo spruzzavano sulla parete e lo spalmavano utilizzando il cosiddetto “fratazzo” per portarlo al giusto spessore.
Ora le testimonianze sono necessarie perché nel libretto di lavoro del romano, regolarmente assunto da Isolfin, compare la semplice dicitura di manovale. Nessun riferimento alla mansione svolta e non tutti i dipendenti di Isolfin erano esposti all’amianto. E proprio questa è la linea difensiva dell’azienda. Che inizialmente propose un risarcimento per mettere la parola fine alla vicenda con una conciliazione che evitasse strascichi giudiziari. Rifiutò Achille stesso: «Proposero una cifra davvero inaccettabile», ricorda oggi la figlia Francesca.
L’azienda ha scelto di non rilasciare dichiarazioni ufficiali ma dalla sede di via Medulino trapela quella che sarà la strategia processuale: manovale non significa necessariamente esposizione all’amianto. Isolfin proverà inoltre a giocarsi un’altra carta, nel pieno del suo diritto a difendersi: dalle informazioni in mano ai legali emergerebbe che nei fascicoli di Inail e Inps – che hanno certificato l’esposizione professionale all’amianto concedendo rispettivamente un indennizzo per la malattia professionale e i benefici della rivalutazione contributiva per il prepensionamento – risulterebbe un’esposizione di oltre dieci anni durante un successivo rapporto di lavoro, in età adulta, con Cmc. La normativa di riferimento, in effetti, richiede un’esposizione almeno decennale per ottenere il prepensionamento.
Ma su questi dieci anni trascorsi lavorando per le aziende del gruppo Cmc affiorano incertezze. Perché il sindacato Cgil, che pure ha avviato le pratiche per il prepensionamento, sostiene di non avere traccia di questo periodo esposizione all’interno della Cooperativa muratori cementisti. E nemmeno ne ha traccia l’avvocato Mirca Tognacci, legale del colosso edile trascinato in questa vicenda da Isolfin: «Non c’è nessuna esposizione all’amianto». E allora cosa è successo in quei dieci anni? «In Cmc mio padre ha fatto solo il ragioniere lavorando sempre solo in ufficio – ricostruisce Francesca pescando dalla memoria –. Ricordo che avviò la causa verso Isolfin perché lì aveva lavorato a stretto contatto con l’amianto. Da quello che mi raccontava ricordo che alla Cmc aveva sempre fatto lavoro di ufficio. Non sarà certo paragonabile un lavoro d’ufficio con quello in una stiva della nave? Mi sembra assurdo sentire Isolfin che si difende così».
Nato a Roma nel 1957, Achille Ciaprini si trasferì a Marina di Ravenna ai tempi delle medie quando il padre, nella guardia di finanza, venne assegnato a Ravenna. Qui è rimasto per diverso tempo frequentando l’istituto tecnico commerciale Ginanni. Dopo il diploma, in Cmc il primo lavoro. «Ha lasciato la città per un periodo e poi ci è tornato negli anni Ottanta quando è andato a Maratea per lavoro conoscendo mia madre. Non ha mai perso l’accento romano», ricorda la figlia Francesca. L ’accento marcato e quei capelli rossi sono senza dubbio le caratteristiche che più di altre potrebbero ricordare i suoi colleghi di lavoro del 1974: «Mi disse che alla Isolfin lavorava con altri giovani, alcuni studenti coetanei. Chi ricordasse qualunque cosa ci contatti».
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